domenica 16 dicembre 2018

Serie RR: Reading Tommaso Pincio. E Caravaggio.

1. "Il dono di saper vivere", di Tommaso Pincio, Einaudi Stile Libero BIG, 2018, euro 17,50.

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2. Chi non ha fatto ancora un salto alla Reading Room di Francesca Spiller in zona SouPra (South of Prada, come la chiamano adesso) a Milano? Io ci sono tornato, anche per conto vostro, in occasione del terzo appuntamento con "Courier", conversazioni con critici d'arte e di cultura visiva. 
L'ospite di "Courier #3" è stato Tommaso Pincio, artista e non solo, in conversazione con Francesco Tenaglia, già Associate Editor di Mousse Magazine e collaboratore di Rolling Stones, Esquire, e Rivista Letteraria.
Ho fatto il mio ingresso nella Reading Room quando iniziava già a prendere vita. Non più, o meglio non soltanto una specie di tela bianca alla Kusama pronta ad accogliere le forme e i colori più disparati delle riviste in vendita. La Room fremeva. 
Tommaso Pincio e Francesco Tenaglia erano lì - in piedi di fianco al banchetto con le copie dell'ultimo romanzo "Il dono di saper vivere", accompagnate dai numeri di Granta e tanto, tanto altro che trovate solo alla Room. 
Mi sono infilato fra gli sgabelli di legno chiaro che avrebbero ospitato tutto il pubblico che la Room può contenere. Ho colto che i due ospiti disquisivano d'arte e di letteratura, e quasi m'è venuta voglia di piazzarmi lì e goderne, d'imparare di nascosto.
Dicevo all'inizio, che peccato che alcuni di voi non siano venuti. Ma è anche per questo che ho preso appunti. 
Insomma, ecco di seguito quanto sono riuscito a raccogliere, un sunto di cosa si sono detti in un'ora e un quarto lo scrittore Tommaso Pincio, nella sua giacca di velluto verde su felpa blu con zip, e Francesco Tenaglia, anche lui in mise inconsapevolmente artistica.

Francesco Tenaglia:

Grazie a tutti di essere venuti al terzo appuntamento con Courier, con Tommaso Pincio, scrittore noto a tutti e con dei trascorsi nell'arte. Nello specifico [si rivolge a Tommaso Pincio] sono rimasto folgorato dalla lettura del tuo ultimo romanzo, Il dono di saper vivere, che tu chiami "caravaggesco", e che è in parte un romanzo ma in parte anche una biografia di Caravaggio. Mi sono chiesto come mai sei ritornato a quel momento della tua vita, quando facevi il pittore e lavoravi per una nota galleria d'arte di Roma e hai deciso di passare alla letteratura, cioè quando sei passato da un mondo all'altro.

Tommaso Pincio:

[ride di cuore] Diciamo che io non ho mai fatto veramente il pittore. Volevo fare il pittore. Ho studiato all'Accademia di Belle Arti, e quello era diventato il mio obiettivo, il mio sogno. Poi, sai, il pittore... L'artista! Volevo essere un artista che eventualmente dipinge. Io fra l'altro ho avuto la fortuna/sfortuna di formarmi in un periodo, a metà degli anni '80, in cui si sentivano forti gli influssi della transavanguardia, di un certo discorso postmoderno relativo all'arte, che è diverso dal postmoderno in letteratura. E il mondo dell'arte, quindi i critici, i collezionisti, eccetera... si divideva fra chi ancora era legato a un'arte di tipo più d'avanguardia, quindi alle esperienze degli anni '60, '70, concettuale, e chi invece abbracciava il recupero della pittura. Ho lavorato molti anni in questa galleria romana, che è la galleria che ha favorito il passaggio a cui hai accennato. Era la galleria di Gian Lorenzo Sperone che aveva varie sedi sparse fra l'Italia e gli Stati Uniti. La galleria di Sperone si è imposta promuovendo soprattutto i lavori di artisti che facevano arte povera. E per quanto riguarda gli artisti stranieri ha trattato tutta la seconda avanguardia degli Stati Uniti, dalla Pop Art fino ai concettuali, minimal. E poi a un certo punto sul finire degli anni '70-inizio anni '80, ha abbracciato l'eresia (come molti la consideravano e la considerano ancora oggi) della transavanguardia. Quindi io mi sono formato in quel periodo lì, e sì, volevo fare il pittore, però in realtà volevo fare l'artista. Il mio problema è stato che mentre mi avvicinavo alla conclusione del ciclo di studi e dovevo affrontare il mondo dell'arte vero, anzi il mondo vero in generale, ho capito che non avevo il talento necessario per diventare l'artista che speravo di essere, e contemporaneamente alla scelta di rinunciare all'arte della pittura, ho conosciuto Sperone che mi ha offerto la possibilità di diventare direttore della sua galleria. Sperone è stata la persona che poi ha lavorato in maniera determinante, diciamo così, sulla mia psiche perché da un lato ha cercato di motivarmi rispetto alle mie rinunce, dicendo: "Guarda, fai bene a voler smettere di voler fare l'artista". Sperone è una persona dal carisma molto forte, e io ho subìto la sua figura considerevole, tanto che ancora oggi è la persona che sogno di più; e questo credo che voglia dire che in quel periodo della mia vita, e sopratutto nel rapporto con la sua persona ci sono parecchi nodi irrisolti. E quindi a un certo punto mi è parso naturale, per non dire obbligato almeno a provare a scioglierli. Dico almeno provare, perché nonostante abbia finito di scrivere il libro un mese fa, l'ho sognato un'altra volta. Però, ecco, mi è sembrato necessario provarci. Tra l'altro devo aggiungere che, durante un'intervista con una critica d'arte che mi ha domandato della mia scelta di usare uno pseudonimo, ho capito come lo pseudonimo sia stata proprio la manifestazione della mia volontà di porre una cesura fra quella vita e quel tempo di direttore di galleria e la nuova vita, il nuovo tempo che contavo di vivere come scrittore. E siccome ero convinto, stupidamente, che tutti mi conoscessero come direttore della galleria, mi sembrava necessario cancellare quella vita e darmi un nome nuovo.

F. T.:

Per chi non avesse ancora letto il libro: è costruito anche attraverso delle tecniche che io immagino essere prese in prestito da modi prettamente artistici, della pittura, però soprattutto penso sia costruito intorno all'idea di specchio. Perché nella prima metà del libro c'è un Tommaso Pincio, forse vero forse falso, ma diverso dal Tommaso Pincio della seconda metà del libro, che si guarda, che si specchia. E questo gioco di specchi continua, va avanti... Penso alla mano di Caravaggio che forse è quella prodotta da Michelangelo Merisi, solo che è al contrario; o all'inganno che Caravaggio, secondo alcuni, avrebbe operato per essere così bravo nelle sue rappresentazioni: l'uso di una camera oscura che prevedeva anche l'impiego di uno specchio. Insomma, sì, mi sembra quasi un romanzo costruito usando delle tecniche pittoriche.

T. P.:

Assolutamente vero. Ma non vale solo per questo libro. Per me è sempre stato un po' così. Del resto la mia formazione è quella, ed è molto probabile che io pensi ad un libro come fa un artista, e in questo senso anche come un gallerista concepisce l'allestimento di una mostra. Perché, come dire, non bisogna dimenticare che qualunque artista pensava al proprio quadro in dialogo con il luogo in cui poi andava ospitato, anche se quel luogo poteva essere transitorio e ignoto. Gli artisti di adesso pensano le opere anche in funzione dell'effetto che avranno nello spazio che le ospiterà, del modo in cui verranno fotografate. Come un'opera può essere o non essere fotografata, quanto sia fotogenica, come si fa con una persona, né più né meno. Detto in una sola parola, io di fatto ho sempre concepito i miei libri, fin dal primo, come delle installazioni. Il che vuol dire: penso a come il racconto, la scrittura possa occupare un determinato spazio, o evocarlo. Tu prima citavi la camera oscura come possibile strumento di cui Caravaggio si è servito, e nel libro, anche se non è detto espressamente, la controparte ideale della camera oscura di caravaggesca memoria per la mia esperienza è stato il cubo bianco della galleria, che ormai è un mito imprescindibile. Quindi sì, è vero: il romanzo è costruito con questo gioco di specchi, di opposizioni, per cui nella prima parte c'è una specie di alter ego romanzesco, una specie di Io che si trova in carcere per omicidio, cosa che fortunatamente ancora non m'è toccata nella realtà [ride], e in quella successiva c'è un'apparente...

F. T.:

...Approssimazione della realtà?

T. P.:

Sì. Però, come dire, forse nella prima parte ci sono delle cose che mi appartengono ancora di più rispetto alla seconda. Eppure, non è che il libro sia stato deciso a tavolino! Quando ho cominciato a scriverlo non pensavo assolutamente di dividere il romanzo in due parti, di creare questo trauma al lettore, perché il libro si interrompe a metà. Il romanzo si spezza e diventa un'altra cosa. Non è che l'abbia deciso. Avevo posto condizioni affinché, ovviamente, qualche incidente potesse verificarsi, questo sì. Perché una delle altre cose che sono tipiche del mio modo di procedere, da tempo ormai, e che mi crea più problemi anche nell'essere riconosciuto dai lettori, è che non sono uno scrittore che investe su quello che ha scoperto e guadagnato. Scompagino sempre il tavolo, perché per me la scrittura è una forma di indagine. Io non scrivo perché ho delle cose da dire, ma perché ho delle cose da capire. E quindi ogni volta che mi sembra di aver carpito qualcosa passo avanti, e su quello che c'era prima non ci torno sopra, o ci ritorno in maniera diversa. Quindi finisce che la mia è una scrittura performativa, alla Marina Abramovich [ride di nuovo], anche se non sembra, anche se non sembra... Però sì, beh, è così. Adesso non voglio fare un paragone assurdo, ma il mio ultimo libro, che è così schiacciato fra queste due parti, una vera e l'altra finta, una romanzesca e l'altra saggistica, è un po' come passare nella porta della mostra di Marina Abramovich a Firenze... Beh, chi è stato alla mostra a Firenze ha capito, insomma.

F. T.:

Tu hai detto una cosa che mi ha incuriosito. Hai detto prima che fino a poco tempo fa i lavori d'arte erano fatti per stare in posti precisi, deputati a ospitarli. E questo mi ha fatto venire in mente quello che è l'incipit della prima puntata di "Ways of Seeing" di John Berger... E Benjamin...

T. P.:

Quello che dice Berger in quella produzione per la BBCfour è vero, però, come hai notato anche tu, è viziato da una cultura sicuramente di stampo novecentesco. Cioè, gli studi più recenti sull'arte del '500 e soprattutto del '600 dimostrano che non è stato solo il passaggio dalla religione al laicismo a segnare l'abbandono dello spazio fisico predeterminato. Del resto, basta che andiate qui vicino, a Palazzo Te, a Mantova, e guardiate la Stanza dei Cavalli di Giulio Romano. Un'opera assolutamente laica. Giulio Romano ha rappresentato i cavalli del committente realizzando un'opera fra le più interessanti dell'arte italiana, utile per capire il rapporto che abbiamo con la pittura e con lo spazio. Perché lì c'è una grammatica precisa, per cui ci sono tre elementi: il cavallo, il paesaggio dipinto sullo sfondo, e poi il trompe l'oeil della finta architettura che riprende la vera architettura del luogo in cui l'affresco è stato realizzato. E se il paesaggio è inventato, al contrario i cavalli affrescati su ogni porta sono cavalli veri. Quando siete lì e li guardate, vi rendete conto che sono veramente dei ritratti; sono i cavalli che il committente possedeva e che amava pazzescamente e che ha voluto fossero ritratti come se fossero delle amate, o dei familiari, e questa cosa si percepisce in maniera molto forte; questi cavalli non sono dipinti, sono pensati per essere veri. L'effetto che fanno questi affreschi è lo stesso identico effetto che si può avere non dico guardando i cavalli di Kounellis, perché oggi non li guardiamo più, trattandosi di un'installazione, ma con la foto sì, quella che scattò Claudio Abate nella galleria L'Attico nel '69, che non è una foto qualunque, ma una fotografia a prospettiva centrale, per cui la galleria viene vista con l'obiettivo esattamente al centro dell'immagine, quindi con le fughe come se fosse un'opera di Leon Battista Alberti, e i cavalli ai lati, messi esattamente di profilo, uno dietro l'altro, per cui vanno scorciando come scorciano le bitte in una prospettiva. E quando mettiamo accanto l'immagine dei cavalli di Giulio Romano, di secoli e secoli fa, e quelli di Kounellis fotografati da Claudio Abate ci rendiamo conto che la logica dello spazio è identica. Il paradosso è che, dopo che Abate fece quella foto, quando Kounellis ripropose l'installazione dei cavalli nei musei cercò di ricreare lo spazio e quel senso di prospettiva a cui lui probabilmente in origine non aveva pensato. Quindi il discorso di Berger è vero, ma fino a un certo punto. C'è proprio un'idea di spazio e di senso che chiama allo spazio, e quindi di come noi ci vediamo rispetto ai luoghi, e in senso più ampio di come noi ci vediamo rispetto alla società, che cambia il rapporto con l'opera d'arte. Molto spesso nelle ragioni per cui in certi momenti e in certi luoghi si sono abbandonati gli spazi fisici e si è preferito produrre un'arte immobile, entravano in ballo questioni inaspettate. Prendete per esempio la pittura veneta che ha segnato l'abbandono dei luoghi fisici. Certamente i veneti sono sempre stati una popolazione di mercanti, e quindi più portati allo scambio, e così come si pensava allo scambio delle merci, probabilmente si pensava anche allo scambio dell'arte; ma oltre a ciò c'era un problema pratico. Un affresco in uno spazio umido come può esserlo solo a Venezia, dura poco. Si doveva dipingere su tela quasi per forza. Che dire, sarà anche una ragione brutalmente ambientale che ha favorito quel tipo di pittura, e quindi di sguardo, a cui Caravaggio deve molto. Insomma, adesso mi dispiace contraddire Berger, ma lui parlava un po' di tempo fa quando ancora molte cose non si sapevano. Se vogliamo è un po' lo stesso problema che avevo anch'io da ragazzo, quando mi illudevo ed ero convinto che tutto il mondo girasse intorno all'arte, e invece... 

F. T.:

Come mai usi sempre Wharol all'inzio dei paragrafi?

T. P.:

Uso Wharol perché Wharol è stato l'artista che, secondo me, più rappresenta lo spartiacque ideale fra il prima e il dopo del tempo moderno, l'unico che può stare al livello di Caravaggio in termini di separazione fra prima e dopo; e poi, anche se apparentemente non sembra, tra i due artisti ci sono molte analogie. Avevano sicuramente caratteri diversi. Wharol era un pavido, mentre Caravaggio era l'opposto, però nel modo di concepire l'opera, nel modo di pensare l'immagine, di eliminare i confini tra alto e basso, in realtà si somigliano. Facendo le dovute proporzioni, sono due figure artistiche che vedo molto bene l'uno accanto all'altro, anche per il rapporto con la fotografia. E poi, indipendentemente da Caravaggio, le citazioni di Wharol, che stanno tutte nella seconda parte del libro, all'inizio di ogni capitolo, in realtà sono lo specchio dell'argomento che tratto nel capitolo stesso; e poi c'è il rapporto che Wharol aveva con il denaro, con la celebrità, lo spazio pubblico; e in ultimo perché mi interessa moltissimo il modo in cui Wharol scriveva i suoi diari, una scrittura molto interessante, motivo per cui non ho voluto tradurre le citazioni che ho lasciato in lingua originale. La sua lingua è uno strano miscuglio di candore e cinismo. Consiglio sempre i diari di Wharol come lettura. 


F. T.:

Sono molto belli.
T. P.:

Belli non lo so, perché sono anche terribilmente noiosi, come era consapevolmente noiosa la sua arte. Del resto era uno che diceva: "Voglio vivere e dipingere come una macchina", voglio dire... Però in realtà impari tante, tante cose.


F. T.:

Caravaggio appare, o diciamo esordisce nel tuo libro non solo nei panni del prigioniero, ma soprattutto perché ha compiuto un delitto nella stessa via in cui Sperone aveva la sua galleria romana. Una storia, questa dell'omicidio commesso da Caravaggio in via di Pallacorda, che diventa anche un "elemento di vendita", un aneddoto "simpatico" da raccontare ai clienti per rompere il ghiaccio, o per collegare la grande arte del passato alle opere esposte in galleria.
Non ti chiedo se hai mai usato veramente questo aneddoto per vendere in galleria...

T. P.:

Sai, nel romanzo c'è una sorta di conflitto fra il racconto vero, nel senso di svestimento (perché mi metto parecchio a nudo in alcune parti del libro), e il racconto usato invece come corazza, come un vestito ulteriore. Non a caso nelle prime due pagine del libro c'è questa immagine del vestito che carcerato piega e ripiega... [Chi lo leggerà capirà]

1TsS.:

[a questo punto ho fatto anch'io una domanda all'autore] 

Oggi cambierebbe pseudonimo?

T. P.:

Pseudonimo, o mi chiedi se tornerei al mio nome di origine?

1TsS.:

No, intendo lo pseudonimo.

T. P.:

Ma sai, come diceva Hemingway i nomi entrano fino all'osso. Io mi sono molto abituato a questo. Stamattina per venire qui sono salito sul treno sbagliato e mi sono trovato in una situazione tale per cui dovevo fornire i miei dati anagrafici, e insomma ormai quando pronuncio il mio nome anagrafico mi risulta più strano dello pseudonimo. Forse era talmente forte in me la voglia di cancellare quella parte della mia vita collegata al lavoravo in galleria, alla condizione di artista mancato, eccetera... che una volta diventato scrittore con un nome nuovo, ecco, ormai... Mi sento di più Tommaso Pincio. Questa cosa l'ho capita anche un giorno che ero al supermercato, e una mamma ha chiamato il figlio: Tommaso! E io ho sentito quella scossa per cui ho capito che ero diventato... non dico un'altra persona, ma un altro nome sì. Per questo ti ho citato la frase che mi sembrava fichissima di Hemingway. Si tratta di una citazione che ho inserito anche tra le epigrafi del mio primo libro perché, anche se non amo particolarmente Hemingway, devo ammettere che c'aveva proprio ragione. Questo, a pensarci bene, è interessante anche per un altro motivo - infatti Caravaggio in un certo qual modo ha avuto il mio stesso problema, diciamo così. Perché gran parte dell'arte di Caravaggio, del modo in cui lui ha gestito la sua figura di artista, e in parte anche le sue opere, è dipeso anche dal confronto obbligato con la figura di Michelangelo Buonarroti. Lui è arrivato a Roma in un momento in cui Michelangelo era come un dio sceso in terra, e siccome i genitori avevano avuto la malaugurata idea di chiamarlo Michelangelo, Caravaggio ha capito che non sarebbe mai potuto essere il Michelangelo numero 1, ma sarebbe rimasto per sempre il numero 2. E siccome farsi un nome era una questione non da poco, lui ha duellato con Buonarroti in tanti modi per affermarsi, anche citandolo nelle sue opere. In alcune sfidandolo, in altre persino portando al pubblico ammissioni di sconfitta, come nel caso di "Davide e Golia", il quadro in cui Caravggio si ritrae come Golia, quindi come morto, con la testa appena mozzata, e il Davide lo guarda con occhi compassionevoli e sulla spada è inciso un motto latino che dice "l'umiltà uccide la superbia". Spesso  questo è stato interpretato in chiave autobiografica in relazione al suo omicidio, quindi che al fatto che si fosse pentito, che la sua superbia fosse stata quella di uomo intemperante; ma in realtà, se lo guardiamo in una chiave più artistica, il viso di Caravaggio ritratto così, mozzato e sospeso, somiglia tantissimo al san Bartolomeo nella Cappella Sistina. Il san Bartolomeo, come sappiamo, è un autoritratto di Michelangelo, quindi in realtà l'arte di superbia di cui Caravaggio si pente, o meglio di cui Caravaggio fa finta di pentirsi (perché non dobbiamo dimenticare che Caravaggio aveva anche un lato satirico) sembrerebbe quello di aver osato sfidare Michelangelo. Ma la cosa interessante è che nella sua battaglia con il Michelangelo-Dio, Caravaggio da un certo punto di vista ha vinto, perché è diventato un pittore che forse oggi è ancora più apprezzato di Michelangelo, ed è diventato un altro: Caravaggio appunto. Però da un altro punto di vista è anche un grande sconfitto, perché a Michelangelo il nome non gliel'ha tolto mica, e quando uno pronuncia il nome Michelangelo tutti pensano a Buonarroti e alla Cappella Sistina, e via dicendo... Così il massimo della sconfitta e il massimo della vittoria convivono nello stesso individuo.

giovedì 11 ottobre 2018

Serie Blurb: Viaggio (d)istruzione con Mauro Francesco Minervino

1. Stradario di uno spaesato”, Mauro Francesco Minervino, Melville Edizioni, 2016, euro 17,50
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2. Questa volta posso rinviarvi solo al link Fb della casa editrice. Questo a testimonianza del fatto che le realtà editoriali sono molteplici e inattese. Melville Edizioni ha solo tre anni, ma le idee chiare: “Mentre il mondo corre in una direzione […] noi vogliamo orientare la nostra prua ‘in direzione ostinata e contraria’ […] in cerca di quei lettori che ancora credono che la bellezza e l’intelligenza possano salvarci. 
La collana Passaggi” di Melville è dedicata alla letteratura di viaggio ed è diretta dallo stesso Mauro Francesco Minervino.
Secondo me, all'opera sarebbe calzato benissimo il titolo “Stra-diario di uno spaesato”. Finzione? Più facile credere che sia in buona parte realtà. Chi lo sa.
La narrazione è tutta in prima persona, la struttura non è lineare, e il titolo insieme ai tre eserghi danno una calibratura dello spirito imperante: “Spaesato” – appunto - e ancora “perdita”, “fantasma”, e “non più riconoscibile”, e “disgustato”, “niente”...

Non ci sono capitoli veri e propri, ma una successione di paragrafi non numerati, il che rende molto bene la sensazione di smarrimento travolgente. Appena iniziata la navigazione fra le pagine vi rendete conto che il mare resterà agitato a lungo; che vi aspetta una tempesta devastante, perché a volte è così che si sente chi ama la propria terra, ma la vede umiliata e offesa. E allora - “nostalgia”, “tristezza”, “inghiottimento”. Il cielo è spesso nero e il mare buio. Questo è un viaggio di (d)istruzione triste e di ricostruzione ancora un minimo fiduciosa.
La luce filtra per lo più dai ricordi della fanciullezza – il papà marinaio e ferroviere, la nonna che parla alla luna, i compagni di scuola e d'avventura, le amanti e i lupi di Arca, le impressioni giunte fino a noi grazie ai diari dei protagonisti del Grand Tour come Gissing, o di autori che hanno amato la Calabria, come Berto…
Oppure arriva, la luce, quando l’autore ci porta a fare un giro dalle parti di Capobello e Limoneto, dove il mare finalmente “scivola sonnolento nella luce bassa e rilucente del meriggio” e gli scorci sono così belli, “avanzi lussuosi di un mondo lontano”.
Stradario di uno spaesato” è proprio una "cosa bella, magari difficile" ma bella; ti entra dentro abbastanza da avere la sensazione di esserci, o di esserci stato, un déjà vu, a tratti quasi dà l'idea di averle scritte tu quelle parole.

- Il mio consiglio : leggetelo soprattutto se siete amanti dei viaggi, se amate la vostra terra e volete ancora indignarvi per salvarla.
- Toni sotto: *
- Toni sopra: ***
- Alcuni estratti già ricopiati sul mio diario: a) "Si nasce dove si nasce, ma la cosa non è mai priva di conseguenze. Non fosse altro per il fatto che ogni luogo ti mette vicino o lontano a qualcosa che cerchi per tutta la vita"; b) "È  la gente che trasforma e fa tristi i luoghi”; c) “È davanti all’azzurro del cielo capovolto che da ragazzo ho fatto la mia unica promessa della vita, il mio voto di vastità”; d) “Quando stai sempre in giro e fai strade come quelle che faccio io impari certe cose: che la luce qualche volta è dentro al tunnel e che quando arrivi fuori, ad aspettarti c’è solo il buio di una notte che passa prima solo se acceleri e vai via veloce".


3. Mauro Francesco Minervino è un viaggiatore nato. Cordiale, disponibile, ha proprio un bel sorriso e vorremmo vederlo più spesso; il sorriso di un uomo che sa quanto brucia il sacro fuoco della passione.

giovedì 9 agosto 2018

Eleonora C. Caruso e la ferita originale

1. "Le ferite originali", di Eleonora Caruso, Mondadori, 2018, euro 19,00
Per maggiori info, trovate tutto qui 

2. E che posso dirvi di questo romanzo, se non che i vostri 19.00 euri saranno ben spesi?
Quanto ero scettico io, non potete immaginarlo. Sicché l'esperienza della lettura è stata ancora più esaltante. Quando ho capito che mi prendeva a mostro, come si suol dire dalle mie parti, l'ho praticamente bruciato mentre la storia di Eleonora Caruso faceva la stessa cosa con me.
La scrittura è scorrevole, ma ricercata; la struttura narrativa non è lineare; le emozioni sono evidenziate con tutte le gamme fluo disponibili.
Se vi va, un altro consiglio: leggete anche "Toccato dal fuoco" di K. R. Jamison, e "Una vita bipolare" di M. Hornbacher. In questo modo apprenderete meglio anche uno dei tanti significati profondi di questo romanzo.
Era da marzo che ci rincorrevamo, da quando ho mancato la partecipazione di Eleonora al BookPride di Milano, poi c'è stato il suo viaggio a Tokyo, nuove scadenze, e alla fine ci si sono messi anche alcuni problemucci, per tutti e due, che speriamo di esserci buttati alle spalle, perché alla fine ce l'abbiamo fatta. E questo è l’importante. Ecco a voi l'intervista:

1TsS

Il tuo nome è spesso collegato al mondo delle Fanfiction (o fanfic), cioè di chi scrive storie finalizzate a far rivivere i personaggi di altre storie e che in qualche modo hanno segnato il fanfic writer (lo scrittore). Tu come hai scoperto questo modo di fare letteratura, e soprattutto come hai scoperto che ti piaceva leggere, e quindi scrivere, dato che in una precedente intervista ha detto che i tuoi genitori non sono poi lettori appassionati?

E.C.C.

Dunque, per me questo collegamento è un po’ strano. Non perché rinneghi la mia “carriera” di ficwriter, anzi, continuo a scrivere fanfiction appena ho tempo, figuriamoci. Però ero una ficwriter anche quando è uscito il mio primo romanzo con Indiana e la cosa non era così discussa. Forse perché non c’era stato ancora il boom di Wattpad? Ad ogni modo, io ho cominciato a scrivere fanfiction prima di sapere che esistevano, nel senso che scrivevo le mie storie perché mi piaceva farlo, e solo una volta avuto internet a casa ho scoperto che era una cosa, con un nome e tutto il resto. Diciamo che per me è sempre stato naturale. È il modo in cui fruisco le narrazioni altrui, o almeno quelle a cui mi lego molto. Per rispondere all’altra domanda, le fanfiction sono anche l’esatto motivo per cui ho scoperto che mi piaceva scrivere. O meglio, l’ho scoperto a scuola, perché scrivere i temi era praticamente l’unica cosa che mi piaceva fare, ma forse sarebbe rimasta una preferenza come un’altra, o sarebbe stato tutto più lento, senza le fanfiction. Quanto alla lettura, il mio ingresso sono stati i fumetti. Leggevo anche moltissimi libri, da bambina, ma il libro era un’esperienza che finiva in sé, i fumetti invece mi consentivano di portare con me per mesi, anni, le storie che amavo.

1TsS

Ho letto ancora in una tua precedente intervista che scrivi, di solito, quello che ti viene spontaneo scrivere. Al contrario, dal punto di vista stilistico fai spesso scelte ben studiate a tavolino. Come hai appreso le tecniche di scrittura che hai utilizzato anche in questo romanzo edito da Mondadori?

E.C.C.

Scrivendo fanfiction! Di recente, per un saggio, ho fatto una rapida stima di quante ne ho scritte da quando ho iniziato: circa 150, di cui parecchie di molti (a volte moltissimi) capitoli. Ognuno scrive fanfiction in modi diversi, ma per me è sempre stata una cosa serie, dal punto di vista tecnico: volevo scrivere bene, e soprattutto in modi sempre diversi. Semplicemente, con “Le Ferite” ho avuto occasione di mettere insieme alcune cose che ho imparato. Altre invece non ci sono entrate. Queste cose le decide la storia. 

1TsS

Con tutto il rispetto, credo che il fatto di essere una romanziera non sia sufficiente da solo a spiegare come tu sia riuscita a narrare in maniera fedele i comportamenti di una persona affetta da disturbo bipolare. Quando ho letto sulla quarta di copertina quale fosse il tema centrale del romanzo, sono sincero: mi sono interrogato su come tu avessi risolto il problema di raccontare i meccanismi mentali di una persona affetta da questo disturbo (per esempio, il fatto che spesso ci sia un rifiuto di curarsi con una certa costanza, e tutto quello che ne deriva). Alla fine sono rimasto sorpreso, il libro mi è esploso fra le mani. Credo che il lavoro sia riuscito molto bene. Come diavolo hai fatto e quanto c.... di tempo ci hai messo a scrivere questa storia?

E.C.C.

Devo ammettere che scrivere di Christian, in realtà, è stata forse la cosa più semplice, per me. Non “semplice” nel senso che sia stato facile farlo bene, ovviamente, ma nel senso che non ho fatto nessuna fatica a capirlo, vuoi per i trascorsi personali, vuoi perché è un tipo di personaggio che, smembrato, ho affrontato in passato anche in altri racconti. Ci sono state una ricerca approfondita e un consulto diretto con un amico psichiatra, anche, ma Christian è nato spontaneamente, tant’è che non pensavo sarebbe stato bipolare, all’inizio. È successo. Non essendo una realtà che mi è estranea, è semplicemente fluida senza fatica nel personaggio, credo. Quanto al tempo, tra l’idea e la fine del manoscritto è passato parecchio, ma perché sono una testa di cazzo e ho avuto pure dei problemi vari, in mezzo. Da quando mi ci sono messa sul serio, in realtà, ci ho messo meno di un anno. Il più è la pianificazione, non la scrittura in sé. Quella è sempre lunga, per me.

1TsS

Stessa cosa te la chiedo in merito alle descrizioni della vita e dei comportamenti dei tuoi personaggi omosessuali. Soprattutto quelli maschili sono caratterizzati in modo decisamente forte, spesso più dei personaggi femminili. Spesso interroghiamo autori maschi su come siano riusciti a penetrare la psiche femminile... Questa è la volta di chiedere: come diavolo hai fatto a penetrare così a fondo la psiche di uomo, un uomo gay?

E.C.C.

Ehm, non lo so? Quando scrivo un personaggio cerco di calarmi nel suo modo di vivere e pensare, per quanto mi è possibile, quindi semplicemente osservo, penso, elaboro… la base, ahah.  Alcuni, come te, ne sono rimasti colpiti, altri mi hanno detto che invece erano troppo stereotipati, ma questo è valso praticamente per tutti i personaggi, quindi boh? Sono una persona tremenda da intervistare, sorry!

1TsS

Non hai avuto paura che i lettori potessero fraintendere il nocciolo della questione e ricondurre così anche l'orientamento sessuale del protagonista al suo disturbo? Insomma, omosessualità come manifestazione di un disturbo, o di un disagio (vd personaggio di Dante).



E.C.C.

No, non ci ho pensato. È meglio così, o non avrei scritto un rigo. Questo genere di dubbi sono il primo nemico della scrittura, almeno per me. Scrivo il personaggio come lo vedo e come credo abbia senso in sé per sé, tutto qui.
Una volta fuori, ognuno è libero di farsi di lui l’idea che crede. Per esempio, più di una persona ha descritto Davide come un ragazzo che ha difficoltà ad accettare la propria omosessualità, ma sai, io non credo. I disagi di Davide
sono legati al corpo, all’insicurezza, al rapporto poco intimo con la famiglia, ma essere gay non lo turba, o se l’ha turbato in passato, ora l’ha superato. Questo per dire che è poco utile farsi paranoie del tipo “se io scrivo X penseranno che volevo dire Y”, perché tanto ognuno si porta il proprio bagaglio, quando apre un libro, e su quello l’autore non ha controllo.



1TsS

Tu sei un'appassionata d'oriente, del Giappone in particolare. Eppure il tuo stile non ricorda neanche lontanamente la letteratura giapponese (Forse, ma solo marginalmente, Furukawa Hideo). Pensi che tuttavia ci sia un autore giapponese da ringraziare per qualcosa?


E.C.C.

Ti dirò, non amo particolarmente la letteratura giapponese, a parte alcuni autori che però ho scoperto troppo tardi per sentirli “formativi”. Adoro Natsuo Kirino, ad esempio, e mi sono molto ispirata a lei per un paio di racconti, ma non per i romanzi. Il lato sul quale sento vicini i giapponesi è più quello delle tematiche, dell’intreccio emotivo, dell’approccio al sentire. Ma questo lo devo più ai manga che non ai libri.



1TsS

Facciamo che ti elenco di seguito alcune citazioni tratte dal tuo romanzo e tu me le commenti?


E.C.C.

Aiuto!


1TsS

Christian Negri [...] aveva la bellezza un po' arrogante tipica dei visi strani e troppo duri, quelli vanitosi perché sanno di aver rovesciato la bruttezza nel suo opposto; visi complessi, determinati da combinazioni rischiose, ai quali non ti abitui perché sono irrisolvibili.


E.C.C.

Ahah, oddio, sta frase l’ho riscritta trenta volte, mi sa! Era la prima volta che Christian veniva descritto (nella bozza Dante era il primo personaggio a comparire, non Dafne, quindi era il primo a descriverlo) ed era importante metterlo a fuoco – più per me che per il lettore. Ho pensato a una mia amica stupenda, davvero stupenda, che infatti ha un viso particolarissimo, duro, e da piccola era bruttina perché certe facce sono così, devono scompattarsi, come i file zip.


1TsS

Non possiamo scegliere cosa ci tiene in piedi. A volte devi pensare a una cosa soltanto, cioè a non crollare.


E.C.C.

Qui dovevo spezzare un paragrafo in due, quindi dovevo chiudere il primo, ed è uscita questa. Nessun ragionamento dietro, ahah. È una frase piuttosto eloquente. Mi fa pensare immediatamente al romanzo.


1TsS

L'infanzia deve essere come la prima traccia di un disco: abbastanza buona per voler andare avanti, ma non così buona da far sfigurare il resto.


E.C.C.
Un giorno stavo ascoltando Bohemian Raphsody, appunto, e ho detto al mio compagno: “Però è un rischio, scrivere un pezzo così, metti che il resto dell’album è una merda?”. Dante è un personaggio quasi ossessionato dalla narrazione del passato, in particolare dell’infanzia, quindi in questo momento, in realtà, sta dicendo una cosa importante di sé. Solo che lo sta facendo in modo che non lo sembri, come sempre.


1TsS

Lui cercava la ferita originale, nelle persone, la rottura profonda che anche se loro si indurissero, si pietrificassero, si riducessero in polvere, continuerebbe a far male.


E.C.C.
Uno dei primi appunti che ho preso per questo romanzo. Ironicamente, ho deciso solo molto molto più avanti di intitolarlo “Le ferite originali”. In proposta editoriale aveva un altro titolo.


1TsS

Ne hai un sacco di rimpianti, troppi per un uomo della tua età: Ma è anche colpa mia, ho lasciato che tu conservassi il tuo ridicolo animo romantico. Per forza che la vita ti è sembrata deludente. Riesci straordinariamente bene nelle cose che non ti interessano, ma in tutto il resto sei un disastro. Che vuoi che ti dica, che a volte la vita fa schifo? Hai voglia se fa schifo! Ma cosa vuoi farci, non ci andrà più leggera solo perché te lo meriti. [...] Amore, tutti ce lo meritiamo.


E.C.C.
Ah, quanto dolore. Agata, la madre di Dante, è un personaggio su cui avevo scritto molto, ma per bilanciare la narrazione ho dovuto tagliarla, e tutto ciò che è rimasto di lei è qui. Credo che abbia comunque lasciato il suo segno, però, in molti mi parlano di lei anche se appare telefonicamente in due pagine appena, quindi tutto sommato sono felice anche così! Il suo bello, comunque, credo sia proprio la facilità con cui mette in luce il lato più fragile di Dante, come fosse un ragazzino. Lui cerca sempre di mantenere quest’immagine di maschio alfa per tutto il romanzo, ma in quel momento la farsa diventa palese, e lui fa una strana tenerezza, no?


1TsS

Ultime domande: onesta, non debole come la si potrebbe intendere, indispensabile in qualche modo per Christian, forse solo imprudente, ma di una imprudenza dovuta alla giovane età, credo... Chi è Dafne?


E.C.C.

Dafne è una persona che Christian ha amato sinceramente. Era questo che mi interessava, del loro rapporto. Se lui l’avesse solo presa in giro, io non avrei perso tanto tempo a parlarne. Hanno avuto una bella storia, importante, che come tante storie a un certo punto ha smesso di funzionare, e se si è trasformata in un incidente stradale è stato perché entrambi si sono intestarditi, per motivi diversi, a conservarla. Più che dall’imprudenza, direi che che i problemi di Dafne derivano dall’ostinazione, forse. Siccome è una persona che si carica dell’esito di tutto, ha continuato a pensare: “Se questa storia fallisce, sarà un mio fallimento”. Va detto anche che la situazione con Christian era delicata per i vari motivi che sai. Quando penso a Dafne, comunque, più che a una ragazza che cambia, penso a una ragazza che ritrova sé stessa.


1TsS

Qual è invece la citazione che sceglieresti tu? La parte che ti piace di più del tuo libro?


E.C.C.

La cosa che preferisco di “Le ferite” è il rapporto tra Christian e Dante, che per me è il perno dell’intera narrazione. Funzionano a specchio, loro due, tirano fuori l’estremo l’uno dell’altro, e le bugie l’uno dell’altro. Per questo, anche se non saprei scegliere una citazione, credo che la mia parte preferita sia l’inverno [il romanzo è suddiviso in stagioni. Nd1TsS], che ribalta e risolve il loro rapporto. Ah, sì, forse una citazione ce l’ho! In una scena Dante chiede a Christian “Da che cosa stai scappando?” Lui risponde “Dalle cose che voglio di più” e Dante conclude: “Allora scappiamo tutti dalla stessa cosa”. È un momento stranamente intimo, in modo persino prematuro, a quel punto del romanzo. Per questo mi piace.

Toni sotto: ma manco uno, secondo me.
- Toni sopra: ****

3. Qualche citazione da segnalare e da trascrivere sul quadernino: 
 Le avete proprio qui sopra (leggete l'intervista!)

Eleonora C. Caruso è superimpegnata in questo periodo. Dà l'idea di una donna che ce la mette proprio tutta e anche di più. Entusiasta, secondo me ci tiene a non sembrare sgarbata, sebbene questo non le impedisca di essere sincera. Basta seguirla su Fb per farsene un'idea. Vai Eleonora!

sabato 14 luglio 2018

Serie Blurb: A Tokyo con Furukawa Hideo

1. "Tokyo Soundtrack", Furukawa Hideo, trad. di G. Coci, Sellerio, 2018, euro 18,00
Per maggiori info su trama etcetera, come al solito clicca qui

2. Diciotto euro per settecentocinquantaquattro pagine invischianti direi che sono anche pochi.
Avrei voluto chiedere all'autore qualche indizio in più sul titolo originale "Saundotorakku", ma va bene così.
Se, come me, non avete amato troppo "Belka", non dovete temere per niente questo lavoro immane di Furukawa Hideo che, insieme al lavoro di traduzione di Gianluca Coci, ci introduce in una Tokyo che diventa sempre più allucinante (nel senso di spaventosa) e psichedelica, fino a far perdere il lettore nella corsa dietro ai protagonisti. E se non si perde allora arriva alla consapevolezza dell'idiozia umana, e non solo a questo.
Anche in questo romanzo Hideo si avvale degli animali per spiegarci il mondo (o almeno una parte di esso).
Prendiamo il ragazzo, Touta: il suo nome è composto dai caratteri cinesi che stanno per "dieci" + "canzone", ma non è un caso che la sua figura sia associata a quella del maiale, simbolo di forza nella cultura giapponese. La sorella di Touta si chiama Hitsujiko, il cui nome è composto dai caratteri cinesi che stanno per "pecora" e "bambino": è sensibile, timida, inventiva, gentile.
E così ci sono anche corvi (si apprendono perfino troppe cose su questi animali. Non vedrete più un corvo con gli stessi occhi) che simboleggiano il potere della trasformazione, l'inganno e il dispetto; gatti, simboli di fortuna; topi, conquistatori ricchi di passione e fascino.
Cos'altro troviamo in questo romanzo?
Sentimenti di nazionalismo estremo e immigrati fantasmi (i nuovi giapponesi); americani "merdosi" ed estati perse per sempre; il mare (certamente); notazioni coreagrafiche tatuate sulla pelle di una Hitsujiko ballerina che sono più simili a stimmate che a tatuaggi; diluvi, nubifragi e terremoti (non potevano mancare) che cambiano "l'altro lato" in "questo lato"; tante ricette, come l'hamburger ai fiori di banano; poesia (certamente); confinamento e costrizione; erotismo (certamente) con Inu il cane pornografico e il personaggio di Leni con un sesso non definito (o definito più volte in modo diverso); il soprannaturale...
Non è abbastanza? Eppure è questo che accade quando la musica muore. 

Toni sotto: * (a tratti troppo didascalico, ha punti di calo, ma su settecentocinquantaquattro pagine ci sta)
Toni sopra: *** (è un lavoro immane e vale la pena, la lettura ti prende sicuro)
Frasi da segnare: a) "Solo il mistero è onnipresente nella vita, inestinguibile, attraversa tutti gli individui e li tiene insieme"; b) "Roba da matti, gli umani sono degli idioti bastardi, sanno solo commettere un errore dietro l'altro"; c) "Chiaroveggenza, oroscopi e divinazioni di ogni tipo erano popolari più o meno quanto le lotterie e causavano disagi e affollamenti molto simili. [...] La gente andava matta per le arti esoteriche, era disposta a tutto pur di avere una piccola certezza sul proprio futuro"; d) "Il sapere muore. Solo le sensazioni e le emozioni sono veritiere"; e) "Questo mondo è insopportabile, io lo distruggerò con la danza! Aveva deciso. Il risveglio bruciava dentro di lei. Hitsujiko aveva aperto gli occhi"d) "Occorerebbe rimettere tutto a posto, com'era un tempo. Ci sarebbe bisogno di un grande sterminio".