domenica 16 dicembre 2018

Serie RR: Reading Tommaso Pincio. E Caravaggio.

1. "Il dono di saper vivere", di Tommaso Pincio, Einaudi Stile Libero BIG, 2018, euro 17,50.

Per maggiori info, clicca qui.

2. Chi non ha fatto ancora un salto alla Reading Room di Francesca Spiller in zona SouPra (South of Prada, come la chiamano adesso) a Milano? Io ci sono tornato, anche per conto vostro, in occasione del terzo appuntamento con "Courier", conversazioni con critici d'arte e di cultura visiva. 
L'ospite di "Courier #3" è stato Tommaso Pincio, artista e non solo, in conversazione con Francesco Tenaglia, già Associate Editor di Mousse Magazine e collaboratore di Rolling Stones, Esquire, e Rivista Letteraria.
Ho fatto il mio ingresso nella Reading Room quando iniziava già a prendere vita. Non più, o meglio non soltanto una specie di tela bianca alla Kusama pronta ad accogliere le forme e i colori più disparati delle riviste in vendita. La Room fremeva. 
Tommaso Pincio e Francesco Tenaglia erano lì - in piedi di fianco al banchetto con le copie dell'ultimo romanzo "Il dono di saper vivere", accompagnate dai numeri di Granta e tanto, tanto altro che trovate solo alla Room. 
Mi sono infilato fra gli sgabelli di legno chiaro che avrebbero ospitato tutto il pubblico che la Room può contenere. Ho colto che i due ospiti disquisivano d'arte e di letteratura, e quasi m'è venuta voglia di piazzarmi lì e goderne, d'imparare di nascosto.
Dicevo all'inizio, che peccato che alcuni di voi non siano venuti. Ma è anche per questo che ho preso appunti. 
Insomma, ecco di seguito quanto sono riuscito a raccogliere, un sunto di cosa si sono detti in un'ora e un quarto lo scrittore Tommaso Pincio, nella sua giacca di velluto verde su felpa blu con zip, e Francesco Tenaglia, anche lui in mise inconsapevolmente artistica.

Francesco Tenaglia:

Grazie a tutti di essere venuti al terzo appuntamento con Courier, con Tommaso Pincio, scrittore noto a tutti e con dei trascorsi nell'arte. Nello specifico [si rivolge a Tommaso Pincio] sono rimasto folgorato dalla lettura del tuo ultimo romanzo, Il dono di saper vivere, che tu chiami "caravaggesco", e che è in parte un romanzo ma in parte anche una biografia di Caravaggio. Mi sono chiesto come mai sei ritornato a quel momento della tua vita, quando facevi il pittore e lavoravi per una nota galleria d'arte di Roma e hai deciso di passare alla letteratura, cioè quando sei passato da un mondo all'altro.

Tommaso Pincio:

[ride di cuore] Diciamo che io non ho mai fatto veramente il pittore. Volevo fare il pittore. Ho studiato all'Accademia di Belle Arti, e quello era diventato il mio obiettivo, il mio sogno. Poi, sai, il pittore... L'artista! Volevo essere un artista che eventualmente dipinge. Io fra l'altro ho avuto la fortuna/sfortuna di formarmi in un periodo, a metà degli anni '80, in cui si sentivano forti gli influssi della transavanguardia, di un certo discorso postmoderno relativo all'arte, che è diverso dal postmoderno in letteratura. E il mondo dell'arte, quindi i critici, i collezionisti, eccetera... si divideva fra chi ancora era legato a un'arte di tipo più d'avanguardia, quindi alle esperienze degli anni '60, '70, concettuale, e chi invece abbracciava il recupero della pittura. Ho lavorato molti anni in questa galleria romana, che è la galleria che ha favorito il passaggio a cui hai accennato. Era la galleria di Gian Lorenzo Sperone che aveva varie sedi sparse fra l'Italia e gli Stati Uniti. La galleria di Sperone si è imposta promuovendo soprattutto i lavori di artisti che facevano arte povera. E per quanto riguarda gli artisti stranieri ha trattato tutta la seconda avanguardia degli Stati Uniti, dalla Pop Art fino ai concettuali, minimal. E poi a un certo punto sul finire degli anni '70-inizio anni '80, ha abbracciato l'eresia (come molti la consideravano e la considerano ancora oggi) della transavanguardia. Quindi io mi sono formato in quel periodo lì, e sì, volevo fare il pittore, però in realtà volevo fare l'artista. Il mio problema è stato che mentre mi avvicinavo alla conclusione del ciclo di studi e dovevo affrontare il mondo dell'arte vero, anzi il mondo vero in generale, ho capito che non avevo il talento necessario per diventare l'artista che speravo di essere, e contemporaneamente alla scelta di rinunciare all'arte della pittura, ho conosciuto Sperone che mi ha offerto la possibilità di diventare direttore della sua galleria. Sperone è stata la persona che poi ha lavorato in maniera determinante, diciamo così, sulla mia psiche perché da un lato ha cercato di motivarmi rispetto alle mie rinunce, dicendo: "Guarda, fai bene a voler smettere di voler fare l'artista". Sperone è una persona dal carisma molto forte, e io ho subìto la sua figura considerevole, tanto che ancora oggi è la persona che sogno di più; e questo credo che voglia dire che in quel periodo della mia vita, e sopratutto nel rapporto con la sua persona ci sono parecchi nodi irrisolti. E quindi a un certo punto mi è parso naturale, per non dire obbligato almeno a provare a scioglierli. Dico almeno provare, perché nonostante abbia finito di scrivere il libro un mese fa, l'ho sognato un'altra volta. Però, ecco, mi è sembrato necessario provarci. Tra l'altro devo aggiungere che, durante un'intervista con una critica d'arte che mi ha domandato della mia scelta di usare uno pseudonimo, ho capito come lo pseudonimo sia stata proprio la manifestazione della mia volontà di porre una cesura fra quella vita e quel tempo di direttore di galleria e la nuova vita, il nuovo tempo che contavo di vivere come scrittore. E siccome ero convinto, stupidamente, che tutti mi conoscessero come direttore della galleria, mi sembrava necessario cancellare quella vita e darmi un nome nuovo.

F. T.:

Per chi non avesse ancora letto il libro: è costruito anche attraverso delle tecniche che io immagino essere prese in prestito da modi prettamente artistici, della pittura, però soprattutto penso sia costruito intorno all'idea di specchio. Perché nella prima metà del libro c'è un Tommaso Pincio, forse vero forse falso, ma diverso dal Tommaso Pincio della seconda metà del libro, che si guarda, che si specchia. E questo gioco di specchi continua, va avanti... Penso alla mano di Caravaggio che forse è quella prodotta da Michelangelo Merisi, solo che è al contrario; o all'inganno che Caravaggio, secondo alcuni, avrebbe operato per essere così bravo nelle sue rappresentazioni: l'uso di una camera oscura che prevedeva anche l'impiego di uno specchio. Insomma, sì, mi sembra quasi un romanzo costruito usando delle tecniche pittoriche.

T. P.:

Assolutamente vero. Ma non vale solo per questo libro. Per me è sempre stato un po' così. Del resto la mia formazione è quella, ed è molto probabile che io pensi ad un libro come fa un artista, e in questo senso anche come un gallerista concepisce l'allestimento di una mostra. Perché, come dire, non bisogna dimenticare che qualunque artista pensava al proprio quadro in dialogo con il luogo in cui poi andava ospitato, anche se quel luogo poteva essere transitorio e ignoto. Gli artisti di adesso pensano le opere anche in funzione dell'effetto che avranno nello spazio che le ospiterà, del modo in cui verranno fotografate. Come un'opera può essere o non essere fotografata, quanto sia fotogenica, come si fa con una persona, né più né meno. Detto in una sola parola, io di fatto ho sempre concepito i miei libri, fin dal primo, come delle installazioni. Il che vuol dire: penso a come il racconto, la scrittura possa occupare un determinato spazio, o evocarlo. Tu prima citavi la camera oscura come possibile strumento di cui Caravaggio si è servito, e nel libro, anche se non è detto espressamente, la controparte ideale della camera oscura di caravaggesca memoria per la mia esperienza è stato il cubo bianco della galleria, che ormai è un mito imprescindibile. Quindi sì, è vero: il romanzo è costruito con questo gioco di specchi, di opposizioni, per cui nella prima parte c'è una specie di alter ego romanzesco, una specie di Io che si trova in carcere per omicidio, cosa che fortunatamente ancora non m'è toccata nella realtà [ride], e in quella successiva c'è un'apparente...

F. T.:

...Approssimazione della realtà?

T. P.:

Sì. Però, come dire, forse nella prima parte ci sono delle cose che mi appartengono ancora di più rispetto alla seconda. Eppure, non è che il libro sia stato deciso a tavolino! Quando ho cominciato a scriverlo non pensavo assolutamente di dividere il romanzo in due parti, di creare questo trauma al lettore, perché il libro si interrompe a metà. Il romanzo si spezza e diventa un'altra cosa. Non è che l'abbia deciso. Avevo posto condizioni affinché, ovviamente, qualche incidente potesse verificarsi, questo sì. Perché una delle altre cose che sono tipiche del mio modo di procedere, da tempo ormai, e che mi crea più problemi anche nell'essere riconosciuto dai lettori, è che non sono uno scrittore che investe su quello che ha scoperto e guadagnato. Scompagino sempre il tavolo, perché per me la scrittura è una forma di indagine. Io non scrivo perché ho delle cose da dire, ma perché ho delle cose da capire. E quindi ogni volta che mi sembra di aver carpito qualcosa passo avanti, e su quello che c'era prima non ci torno sopra, o ci ritorno in maniera diversa. Quindi finisce che la mia è una scrittura performativa, alla Marina Abramovich [ride di nuovo], anche se non sembra, anche se non sembra... Però sì, beh, è così. Adesso non voglio fare un paragone assurdo, ma il mio ultimo libro, che è così schiacciato fra queste due parti, una vera e l'altra finta, una romanzesca e l'altra saggistica, è un po' come passare nella porta della mostra di Marina Abramovich a Firenze... Beh, chi è stato alla mostra a Firenze ha capito, insomma.

F. T.:

Tu hai detto una cosa che mi ha incuriosito. Hai detto prima che fino a poco tempo fa i lavori d'arte erano fatti per stare in posti precisi, deputati a ospitarli. E questo mi ha fatto venire in mente quello che è l'incipit della prima puntata di "Ways of Seeing" di John Berger... E Benjamin...

T. P.:

Quello che dice Berger in quella produzione per la BBCfour è vero, però, come hai notato anche tu, è viziato da una cultura sicuramente di stampo novecentesco. Cioè, gli studi più recenti sull'arte del '500 e soprattutto del '600 dimostrano che non è stato solo il passaggio dalla religione al laicismo a segnare l'abbandono dello spazio fisico predeterminato. Del resto, basta che andiate qui vicino, a Palazzo Te, a Mantova, e guardiate la Stanza dei Cavalli di Giulio Romano. Un'opera assolutamente laica. Giulio Romano ha rappresentato i cavalli del committente realizzando un'opera fra le più interessanti dell'arte italiana, utile per capire il rapporto che abbiamo con la pittura e con lo spazio. Perché lì c'è una grammatica precisa, per cui ci sono tre elementi: il cavallo, il paesaggio dipinto sullo sfondo, e poi il trompe l'oeil della finta architettura che riprende la vera architettura del luogo in cui l'affresco è stato realizzato. E se il paesaggio è inventato, al contrario i cavalli affrescati su ogni porta sono cavalli veri. Quando siete lì e li guardate, vi rendete conto che sono veramente dei ritratti; sono i cavalli che il committente possedeva e che amava pazzescamente e che ha voluto fossero ritratti come se fossero delle amate, o dei familiari, e questa cosa si percepisce in maniera molto forte; questi cavalli non sono dipinti, sono pensati per essere veri. L'effetto che fanno questi affreschi è lo stesso identico effetto che si può avere non dico guardando i cavalli di Kounellis, perché oggi non li guardiamo più, trattandosi di un'installazione, ma con la foto sì, quella che scattò Claudio Abate nella galleria L'Attico nel '69, che non è una foto qualunque, ma una fotografia a prospettiva centrale, per cui la galleria viene vista con l'obiettivo esattamente al centro dell'immagine, quindi con le fughe come se fosse un'opera di Leon Battista Alberti, e i cavalli ai lati, messi esattamente di profilo, uno dietro l'altro, per cui vanno scorciando come scorciano le bitte in una prospettiva. E quando mettiamo accanto l'immagine dei cavalli di Giulio Romano, di secoli e secoli fa, e quelli di Kounellis fotografati da Claudio Abate ci rendiamo conto che la logica dello spazio è identica. Il paradosso è che, dopo che Abate fece quella foto, quando Kounellis ripropose l'installazione dei cavalli nei musei cercò di ricreare lo spazio e quel senso di prospettiva a cui lui probabilmente in origine non aveva pensato. Quindi il discorso di Berger è vero, ma fino a un certo punto. C'è proprio un'idea di spazio e di senso che chiama allo spazio, e quindi di come noi ci vediamo rispetto ai luoghi, e in senso più ampio di come noi ci vediamo rispetto alla società, che cambia il rapporto con l'opera d'arte. Molto spesso nelle ragioni per cui in certi momenti e in certi luoghi si sono abbandonati gli spazi fisici e si è preferito produrre un'arte immobile, entravano in ballo questioni inaspettate. Prendete per esempio la pittura veneta che ha segnato l'abbandono dei luoghi fisici. Certamente i veneti sono sempre stati una popolazione di mercanti, e quindi più portati allo scambio, e così come si pensava allo scambio delle merci, probabilmente si pensava anche allo scambio dell'arte; ma oltre a ciò c'era un problema pratico. Un affresco in uno spazio umido come può esserlo solo a Venezia, dura poco. Si doveva dipingere su tela quasi per forza. Che dire, sarà anche una ragione brutalmente ambientale che ha favorito quel tipo di pittura, e quindi di sguardo, a cui Caravaggio deve molto. Insomma, adesso mi dispiace contraddire Berger, ma lui parlava un po' di tempo fa quando ancora molte cose non si sapevano. Se vogliamo è un po' lo stesso problema che avevo anch'io da ragazzo, quando mi illudevo ed ero convinto che tutto il mondo girasse intorno all'arte, e invece... 

F. T.:

Come mai usi sempre Wharol all'inzio dei paragrafi?

T. P.:

Uso Wharol perché Wharol è stato l'artista che, secondo me, più rappresenta lo spartiacque ideale fra il prima e il dopo del tempo moderno, l'unico che può stare al livello di Caravaggio in termini di separazione fra prima e dopo; e poi, anche se apparentemente non sembra, tra i due artisti ci sono molte analogie. Avevano sicuramente caratteri diversi. Wharol era un pavido, mentre Caravaggio era l'opposto, però nel modo di concepire l'opera, nel modo di pensare l'immagine, di eliminare i confini tra alto e basso, in realtà si somigliano. Facendo le dovute proporzioni, sono due figure artistiche che vedo molto bene l'uno accanto all'altro, anche per il rapporto con la fotografia. E poi, indipendentemente da Caravaggio, le citazioni di Wharol, che stanno tutte nella seconda parte del libro, all'inizio di ogni capitolo, in realtà sono lo specchio dell'argomento che tratto nel capitolo stesso; e poi c'è il rapporto che Wharol aveva con il denaro, con la celebrità, lo spazio pubblico; e in ultimo perché mi interessa moltissimo il modo in cui Wharol scriveva i suoi diari, una scrittura molto interessante, motivo per cui non ho voluto tradurre le citazioni che ho lasciato in lingua originale. La sua lingua è uno strano miscuglio di candore e cinismo. Consiglio sempre i diari di Wharol come lettura. 


F. T.:

Sono molto belli.
T. P.:

Belli non lo so, perché sono anche terribilmente noiosi, come era consapevolmente noiosa la sua arte. Del resto era uno che diceva: "Voglio vivere e dipingere come una macchina", voglio dire... Però in realtà impari tante, tante cose.


F. T.:

Caravaggio appare, o diciamo esordisce nel tuo libro non solo nei panni del prigioniero, ma soprattutto perché ha compiuto un delitto nella stessa via in cui Sperone aveva la sua galleria romana. Una storia, questa dell'omicidio commesso da Caravaggio in via di Pallacorda, che diventa anche un "elemento di vendita", un aneddoto "simpatico" da raccontare ai clienti per rompere il ghiaccio, o per collegare la grande arte del passato alle opere esposte in galleria.
Non ti chiedo se hai mai usato veramente questo aneddoto per vendere in galleria...

T. P.:

Sai, nel romanzo c'è una sorta di conflitto fra il racconto vero, nel senso di svestimento (perché mi metto parecchio a nudo in alcune parti del libro), e il racconto usato invece come corazza, come un vestito ulteriore. Non a caso nelle prime due pagine del libro c'è questa immagine del vestito che carcerato piega e ripiega... [Chi lo leggerà capirà]

1TsS.:

[a questo punto ho fatto anch'io una domanda all'autore] 

Oggi cambierebbe pseudonimo?

T. P.:

Pseudonimo, o mi chiedi se tornerei al mio nome di origine?

1TsS.:

No, intendo lo pseudonimo.

T. P.:

Ma sai, come diceva Hemingway i nomi entrano fino all'osso. Io mi sono molto abituato a questo. Stamattina per venire qui sono salito sul treno sbagliato e mi sono trovato in una situazione tale per cui dovevo fornire i miei dati anagrafici, e insomma ormai quando pronuncio il mio nome anagrafico mi risulta più strano dello pseudonimo. Forse era talmente forte in me la voglia di cancellare quella parte della mia vita collegata al lavoravo in galleria, alla condizione di artista mancato, eccetera... che una volta diventato scrittore con un nome nuovo, ecco, ormai... Mi sento di più Tommaso Pincio. Questa cosa l'ho capita anche un giorno che ero al supermercato, e una mamma ha chiamato il figlio: Tommaso! E io ho sentito quella scossa per cui ho capito che ero diventato... non dico un'altra persona, ma un altro nome sì. Per questo ti ho citato la frase che mi sembrava fichissima di Hemingway. Si tratta di una citazione che ho inserito anche tra le epigrafi del mio primo libro perché, anche se non amo particolarmente Hemingway, devo ammettere che c'aveva proprio ragione. Questo, a pensarci bene, è interessante anche per un altro motivo - infatti Caravaggio in un certo qual modo ha avuto il mio stesso problema, diciamo così. Perché gran parte dell'arte di Caravaggio, del modo in cui lui ha gestito la sua figura di artista, e in parte anche le sue opere, è dipeso anche dal confronto obbligato con la figura di Michelangelo Buonarroti. Lui è arrivato a Roma in un momento in cui Michelangelo era come un dio sceso in terra, e siccome i genitori avevano avuto la malaugurata idea di chiamarlo Michelangelo, Caravaggio ha capito che non sarebbe mai potuto essere il Michelangelo numero 1, ma sarebbe rimasto per sempre il numero 2. E siccome farsi un nome era una questione non da poco, lui ha duellato con Buonarroti in tanti modi per affermarsi, anche citandolo nelle sue opere. In alcune sfidandolo, in altre persino portando al pubblico ammissioni di sconfitta, come nel caso di "Davide e Golia", il quadro in cui Caravggio si ritrae come Golia, quindi come morto, con la testa appena mozzata, e il Davide lo guarda con occhi compassionevoli e sulla spada è inciso un motto latino che dice "l'umiltà uccide la superbia". Spesso  questo è stato interpretato in chiave autobiografica in relazione al suo omicidio, quindi che al fatto che si fosse pentito, che la sua superbia fosse stata quella di uomo intemperante; ma in realtà, se lo guardiamo in una chiave più artistica, il viso di Caravaggio ritratto così, mozzato e sospeso, somiglia tantissimo al san Bartolomeo nella Cappella Sistina. Il san Bartolomeo, come sappiamo, è un autoritratto di Michelangelo, quindi in realtà l'arte di superbia di cui Caravaggio si pente, o meglio di cui Caravaggio fa finta di pentirsi (perché non dobbiamo dimenticare che Caravaggio aveva anche un lato satirico) sembrerebbe quello di aver osato sfidare Michelangelo. Ma la cosa interessante è che nella sua battaglia con il Michelangelo-Dio, Caravaggio da un certo punto di vista ha vinto, perché è diventato un pittore che forse oggi è ancora più apprezzato di Michelangelo, ed è diventato un altro: Caravaggio appunto. Però da un altro punto di vista è anche un grande sconfitto, perché a Michelangelo il nome non gliel'ha tolto mica, e quando uno pronuncia il nome Michelangelo tutti pensano a Buonarroti e alla Cappella Sistina, e via dicendo... Così il massimo della sconfitta e il massimo della vittoria convivono nello stesso individuo.