Ecco, in parte, cosa ha raccontato quella sera Davide Mosca a proposito del suo "Breve storia amorosa dei vasi comunicanti". Per comodità, ho suddiviso l'intervento in quattro parti: genesi del libro; trama; temi principali e tecniche; una considerazione scaturita da una domanda del pubblico.
Alla fine, come al solito, troverete le citazioni da trascrivere sul vostro diario.
D.M.:
[il corsivo nero è mio]
Genesi - Come sono arrivato a questo libro?
Il libro parte da quando avevo vent'anni. In prima liceo avevo pubblicato il mio primo romanzo per una piccola casa editrice toscana, ma cadde totalmente nel vuoto [lo dice sorridendo, ma commosso dal ricordo] e quando lo rilessi, a distanza di anni, capii che forse era meglio così, perché non era un buon libro: c'era una grande voglia di scrivere, ma non c'era una storia. Volevo essere poeta, ma come si suol dire: bisogna essere prima poesia; cioè, prima bisogna avere una storia da raccontare. E questo schiaffone che presi mi insegnò una certa umiltà, capii che il mio ombelico non era il centro del mondo. Poi all'università mi innamorai della storia, iniziai a scrivere romanzi storici, e quelli sì, ottennero un discreto riscontro, ma a un certo punto smisi di scriverli. Avrei dovuto scrivere una trilogia, ma scrissi solo due volumi. Le persone mi chiedevano: "Ma il terzo quando lo scrivi?", ma io non me la sentivo più, perché avevo avvertito un distacco. Un giorno, stavo scrivendo una scena di guerra e pensai: perché devo scrivere di guerra? Io non ci credo più! Quindi, se fino a poco tempo prima mi ero divertito a farlo, in quel momento capii che se avessi scritto un altro libro di quel genere mi sarei sentito inautentico... Nel frattempo avevo sviluppato altre passioni: il noir, il thriller, e sono passato a scrivere questi altri generi, anche se sempre a modo mio: senza sangue, senza morti e senza violenza, che sono cose che non mi hanno mai interessato. Finché a un certo punto mi sono reso conto che sarei potuto andare avanti tutta la vita a scrivere buoni libri solo col mestiere, ma non era quello che volevo, non volevo il puro entertainment fine a se stesso.
Nessuno ha la pretesa di cambiare il mondo con un libro, naturalmente, ma volevo scrivere qualcosa che almeno cambiasse me stesso, e alcune delle persone che mi leggevano; mi sembrava doveroso farlo.
Avevo questa storia dentro, da tanti anni, ma non mi sentivo mai pronto. Poi, una sera (a quei tempi vivevo con la mia compagna in una vecchia casa non lontano da qui), lei [indica la fidanzata seduta in prima fila] era seduta sul nostro piccolo divano sfondato, il divano più brutto che abbia mai avuto, e ho scritto dieci righe, e poi ho detto: "Guarda, vorrei scrivere questa cosa, tu cosa ne pensi?" E lei lesse le dieci righe [esattamente le prime righe del romanzo] e mi disse: "Devi farlo assolutamente. Non devi fare più nient'altro, se non questo".
E allora da lì ho raccolto la forza per ricominciare a credere in me stesso, per cominciare quest'avventura. La prima parte è stata abbastanza dolorosa, perché ho attinto ad alcuni ricordi personali. Poi, piano piano, mi sono lasciato andare e ho scritto quasi senza "preoccupazioni estetiche", con completo trasporto, senza reticenze e retropensieri. Ricordo che la seconda parte, invece, l'ho scritta mentre eravamo in viaggio in Russia, fra treni e aerei, e sentivo una grandissima gioia dentro, un flusso continuo come non mi capitava da tantissimi anni; si può dire che l'ho scritta in una settimana facendomi trasportare completamente dalla storia. Pensavo che Kerouac mentisse, quando diceva di aver scritto "On the Road" in una manciata di settimane, invece mi sono reso conto per la prima volta dopo tanti anni che anche in una settimana si possono scrivere sessanta, settanta belle pagine; o almeno spero che siano belle anche per voi. E così è cominciata anche la seconda parte della mia, dato che, fra le altre cose, proprio quest'anno ho compiuto quaranta anni.
Per quanto riguarda il titolo: io sono sempre stato un pessimo titolista, ma questo è venuto in mente a me, e mi piace, ci sono affezionato, perché racconta qualcosa del libro.
Trama - Per parlare dei miei "Vasi comunicanti", ecco, ho pensato di fare una specie di dizionario, di individuare alcune parole chiave. Ma andiamo con ordine: abbiamo un ragazzo [Remo] di circa ventiquattro anni, che ha passato quasi per interezza gli ultimi due chiuso in casa, a mangiare e a scrivere; è diventato un obeso; è depresso; è un uomo che ha chiuso i ponti con tutto, anche con se stesso. Finché a causa di un mal di denti è costretto a rimettere il naso fuori, a frequentare un pochino gli altri e riprendere a vivere, almeno un minimo. Molto timidamente. E in una di queste rare occasioni in cui esce di casa, conosce questa ragazza [Margherita] che è all'ultimo anno delle superiori e che sembra tutta'altro che depressa; è molto energica, studia, lavora nel ristorante di famiglia, litiga con tutti, ha un sovraccarico di vita, ma galleggia sulla soglia dell'anoressia. Quando si conoscono lei pesa a malapena quarantacinque chili; lui invece veleggia sopra i novanta chili. E cominciano a frequentarsi per il puro gusto di farlo.
I "vasi comunicanti" c'entrano proprio perché, per una sorta di magia, quello che lui a mano a mano perde di se stesso e del proprio corpo, salta nel corpo di lei; lui si assottiglia, e lei riprende peso.
Tema e tecnica - E adesso veniamo al dizionario, alle parole chiave di questo romanzo. Questo non è un romanzo a tesi; è una storia. Però è chiaro che raccontando una storia saltano fuori sempre tante altre cose.
La prima parola del dizionario di questo romanzo è Aspettativa: è l'aspettativa che ci fa deragliare. Gli altri hanno aspettative su di noi; noi abbiamo aspettative su noi stessi. Ecco, il protagonista è un ragazzo normale, uno che andava bene a scuola, che lavorava, che aiutava in casa... Insomma tutto sembrava andare abbastanza bene, ma a un certo punto si accorge che gli altri hanno tracciato dei confini che lui non riconosce più, si sente ingabbiato, ha paura di deludere gli altri e se stesso. Quindi, come spesso succede, decide di "barattare tutti i suoi guai con un unico grande guaio": si chiude in casa e pensa che riuscirà ad accontentare tutti, la famiglia, la fidanzata, che riuscirà a dare una svolta alla propria vita scrivendo un grandissimo romanzo, un romanzo che metterà tutte le cose a posto; solo che niente va a posto, anzi tutto va in pezzi. E così finisce quasi per boicottarsi.
E a questo punto arriviamo alla seconda parola cardine del romanzo, che è la Crisi: la crisi è qualcosa con cui tutti facciamo i conti nella vita. Inutile pensare di schivarla. I mistici la chiamavano "il deserto". È facile dire che ogni crisi è una possibilità; è facile dirlo quando ne sei fuori, ma è tutt'altro quando ci stai dentro. Cosa possiamo fare quando siamo in crisi? Che cosa fanno i miei personaggi in crisi? Be', aspettano. Le crisi funzionano così: comportano una perdita d'identità, e ogni crisi ha i suoi tempi, e noi possiamo solo aspettare; magari è meglio se aspettiamo con attenzione, ma è l'unica cosa che possiamo fare. E i miei protagonisti aspettano, vivendo la loro crisi nel corpo. Il mio protagonista si accorge che di colpo tutto è diventato più piccolo, perché il suo corpo è cresciuto, quindi ecco che per esempio i sedili dell'aereo sono più piccoli, tutti gli spazi si rimpiccioliscono. Ma nel contempo le distanze si allungano, perché per un corpo di centoventi chili qualsiasi passeggiata diventa un problema. Quando sei così grasso sei ipervisibile, e allo stesso tempo sei invisibile; vale a dire che per gli altri sei il grassone di turno, sei fuori dai giochi, sei ai margini, eppure non passi inosservato... E allora, qual è la risposta a questa sorta di schizofrenia? La soluzione sembrerebbe essere sempre il cibo: "l'unico grande guaio". Mangiando pensi di avere lo sfogo per ritrovarti, ma è chiaro che in realtà è un circolo vizioso. La soluzione vera invece, come sempre, è un incontro. Quando incontriamo qualcuno incontriamo sempre una parte di noi, il nostro lato ombra, quello che rifiutiamo. E così, ecco che due persone s'incontrano e si legano in un'amicizia dai contorni sfumati. Lei [Margherita] vede qualcosa in lui [Remo]: scorge la sua attenzione, l'attenzione che lui ha per lei; vede che lui è realmente interessato a lei, e anche se il cibo è il loro debole, non parlano mai di cibo: Loro semplicemente... si toccano. Pur tra mille impacci, ognuno fa riscoprire il corpo all'altro. Così, attraverso l'ascolto, attraverso l'attenzione e attraverso il corpo, i vasi comunicanti iniziano a funzionare.
E a questo proposito, ecco una delle tecniche che ho usato per scrivere questo romanzo: all'inizio della storia il passato ha lo stesso peso del presente; però man mano diminuisce, fino ad arrivare a metà del romanzo, dove la storia subisce una svolta e il passato smette di pesare, o quanto meno si assottiglia fino a ricomparire solo ogni tanto, qua e là.
E qui arriviamo a un'altra parola chiave, che io adoro, e che è Convalescenza: la convalescenza è una delle chiavi della vita; è quel passaggio, che tutti abbiamo provato, fra la malattia e la guarigione. Quando sei in convalescenza senti di avere addosso la malattia, eppure senti che stai guarendo, ed è qualcosa di incredibile. Si può credere alla resurrezione solo durante la convalescenza, perché la compresenza di morte e vita possiamo avvertirla veramente sul corpo solo durante questa fase. Non ci si sente mai così bene come nel primo giorno in cui ci sentiamo bene. L'idea è che la primavera in qualche modo torna sempre. Anche le crisi sono cicliche, tornano, ma poi la primavera in qualche modo arriva sempre, e ce ne accorgiamo dal fatto che abbiamo più attenzione per gli altri, non siamo più concentrati solo su noi stessi...
È una storia d'amore, o no? - Il rapporto dei due personaggi rimane volutamente molto imprecisato, perché la vita non funziona così, non è che puoi guarire solo se t'innamori di una persona. Quella fra Remo e Margherita, alla fine, è un'amicizia sfumata che permette loro di entrare in contatto con una parte di sé che prima non accettavano, una nuova idea di sé. I due parlano (soprattutto lei, mentre lui ascolta), passeggiano, spesso rassettano insieme - si tratta di gesti semplici, materiali, concreti, che però comunicano energia. A suo modo potremmo dire che è una storia d'amore, ma non la solita storia d'amore. È la storia di un'amicizia, ma anche l'amicizia è una forma d'amore. L'idea è quella di non fissarsi su un'idea statica di se stessi.
- Toni sotto: se ne trovate, fatemelo sapere
- Toni sopra: *****
a) Ci sono momenti [...] in cui cominci inspiegabilmente a trovare gusto in cose che avevi sempre disdegnato. Ebbene, in quei momenti puoi star certo che qualcosa è in serbo per te; b) Il guaio di alcuni è che credono di voler essere romanzieri quando in realtà desiderano essere romanzi; c) In fondo è questo che chiediamo alle persone a cui teniamo. Una storia. [...] E fin quando le storie continuano, è come se la realtà non esistesse più; d) Ciascuno possiede la medicina per le malattie altrui; e) Forse la vita pone le vere domande proprio a chi crede di non avere le risposte, affinché corra a cercarle; f) Mi sento di valere poco, ma di poter fiorire ovunque; g) Gli esseri umani non fanno molti errori, ma lo stesso errore molte volte; h) Se torni in un posto con la stessa persona significa che c'è una direzione, per quanto ignota. E' proprio il ritorno a caratterizzare ogni partenza. Tornare al punto di partenza per vederlo con occhi nuovi. E' quello che ci succederà quando torneremo in paradiso, pensavo; i) Il primo passo non ti porta dove vuoi, ma ti toglie da dove sei; l) L'ombra è il tuo peggior nemico, fino a che non capisci che è il più prezioso degli amici. E' l'ignoto, l'unica terra in cui potrai davvero essere felice, perché la smetterai finalmente di essere quello che credi di essere. Non la raggiungerai mai finché non aprirai gli occhi per riconoscerla sotto i tuoi piedi; m) La gioia non si misura, anzi si trova solo nell'assenza di misurazioni. Era quello che avrei voluto dirle, ma non sarebbe servito. Avevo imparato che le uniche parole che funzionano non sono quelle che si pronunciano, ma quelle che si vivono.